giovedì 26 aprile 2012

L’architettura secondo Livio Vacchini


L’architettura secondo Livio Vacchini

Livio Vacchini è stato un architetto che ha combattuto in maniera pratica, durante la sua lunga carriera, contro quel processo di svalutazione qualitativa che ha visto protagonista indiscussa l’architettura dalla fine del XX secolo fino ad oggi, dato dallo sviluppo economico-produttivo e dalla repentina sterzata della nostra società verso un eccezionale consumismo ed il sempre maggiore uso di materiali e tecnologie sofisticate.
E’ stato facile quindi, in un’era in cui il grattacielo rappresenta la massima aspirazione (assieme all’esigenza di stupire) di un fare architettura ormai imprigionato e canonizzato dal tecnicismo, cadere nel processo di declassazione poetica, sociale e formale che questa disciplina ha vissuto negli ultimi decenni.
Come successe con il razionalismo, lo sviluppo tecnologico ha condotto i nostri edifici ad un processo di omologazione del proprio linguaggio estetico, che li ha portati all’anonimato, al loro sprofondamento all’interno di un agglomerato urbano, di una città in continua espansione. Questo scenario non solo priva di un qualsiasi significato ogni tentativo di critica, ma allontana sempre di più ogni possibilità di rapporto tra società ed edificio che, se privo di una forza intrinseca di esistere, è condannato alla dissoluzione e all’impossibilità di durare nel tempo.
Livio Vacchini è uno di quegli architetti che ha provato a scongiurare questo pericolo di smaterializzazione dell’edificio all’interno dell’agglomerato urbano, basandolo su quel concetto di “object singuler” espresso da Jean Boudrillard in Architettura e nulla. Oggetti singolari. L’oggetto singolare non ha motivo di confrontarsi con la società, ma si risolve e si esaurisce in sé stesso, e grazie ad un fattore, dato dalla genialità di chi lo progetta, diventa unico e riconoscibile… un segno forte all’interno di un paesaggio omologato.
Ogni edificio che verrà descritto in questa trattazione ha questa capacità di rendersi inconfondibile senza scadere nel kitsch, destino comune a molte architetture che fanno dell’appariscenza il loro unico obiettivo. Di fatti la straordinarietà di Livio Vacchini, architetto svizzero, sta proprio nel riuscire a stupire attraverso la semplicità dei volumi e delle superfici, senza bisogno di ricorrere alle forme che hanno condotto a considerare la figura dell’architetto, di fatto sminuendola, come ad un “disegnatore di sogni”. Non si vedranno, dunque, pareti inclinate all’inverosimile, sbalzi improbabili, edifici-nuvola o gigantismi vari, ma solo edifici progettati con gusto, che fanno della funzionalità e semplicità estetica il leitmotiv principale, ma non per questo prive di carattere.
La Ferriera a Locarno:
 
La Ferriera di Livio Vacchini rappresenta un esempio singolare di come la struttura portante possa diventare indiscussa protagonista delle facciate. Collocato in una zona piuttosto centrale della città di Locarno, l’edificio occupa interamente uno dei lotti del regolare tessuto edilizio del piano di espansione ottocentesco. Il fabbricato risulta, così, isolato su quattro lati in una condizione in cui i prospetti risultano di primario interesse per la definizione formale del volume.
L’intero edificio si basa sull’idea di liberare completamente il piano terra, che riveste un ruolo pubblico, e di trasformare concettualmente i piani superiori in un “grande tetto”, altro 19 metri. Una maglia di profili in acciaio si staglia, staccata di circa un metro dal filo di facciata, sulla superficie vetrata retrostante. La struttura viene quindi portata all’esterno, per eliminare qualsiasi appoggio intermedio e permettere di usufruire in modo flessibile dell’area disponibile su ogni livello.
La struttura metallica di facciata, forata per permettere il passaggio della luce, sembra una grande griglia di modulo 1,70 m. I piatti di acciaio non riproducono il consueto schema a doppio “T”, ma le ali sono collegate da piastre poste in diagonale. Questa soluzione da una parte garantisce rigidezza al sistema, dall’altra modula l’afflusso di luce sulla facciata vetrata del volume vero e proprio. La complessità geometrica della struttura ha portato alla scelta di un montaggio in opera per parti preassemblate. Tutti i piatti metallici sono stati saldati in officina in elementi a quattro moduli quadrati che, rifiniti e verniciati, sono stati portati in loco e assemblati.
La griglia di acciaio poggia, su ciascun lato, su due soli possenti elementi quadrangolari in calcestruzzo armato. Come nella Neuenationalgalerie di Berlino di Mies Van Der Rohe, la coppia di pilastri è disposta in posizione intermedia rispetto alla lunghezza totale del lato, svincolando lo spigolo, che si libra a sbalzo nello spazio, da qualsiasi funzione di sostegno. Lo schema statico è ricondotto al sistema trilitico, con una trave su due appoggi, ma in realtà è ben più complesso. Ciascuna delle quattro griglie verticali è connessa orizzontalmente attraverso un’orditura primaria di travi in acciaio che vanno a configurare un telaio spaziale. Tale soluzione è tesa a determinare l’effetto si sospensione del volume vero e proprio e non a sgravare la facciata metallica della sua funzione portante. Al contrario, ciascun lato, funziona come un’enorme trave di bordo su cui convergono tutti i carichi.
Dato che le ombre rappresentano, per questa struttura, le protagoniste principali per leggere le profondità dell’edificio, e dato che le ombre più definite sono quelle ottenute dalla proiezione di un materiale su una superficie dello stesso tipo e colore, l’involucro vetrato è stato rivestito in buona parte da una rete metallica a trama molto fitta che, da una certa distanza, si percepisce come una superficie compatta.
Dal punto di vista distributivo, gli elementi di collegamento verticale, costituenti la struttura portante dei due prismi contenuti dalle quattro griglie di facciata, rappresentano gli unici punti fissi di uno spazio interno che può essere suddiviso, liberamente, attraverso pareti leggere.
La galleria divide il volume in due prismi che costringono lo spazio pubblico ricavato nel cuore del fabbricato. La galleria ha inoltre la funzione di garantire aria e luce agli ambienti più interni di ciascun livello. L’involucro di questi due corpi è costituito da un telaio dimensionalmente contenuto che sostiene un sistema vetrato parzialmente schermato da elementi in rete metallica. Questi ultimi costituiscono anche la finitura delle parti opache. La sensazione che ne deriva è quella di un solido leggero e trasparente che, tuttavia, conserva l’impatto della propria massa.

mercoledì 1 dicembre 2010







Außenansicht Jüdisches Museum Berlin, Libeskind-Bau



Il Museo
Il Museo Ebraico di Berlino è dalla sua apertura nel 2001 una delle istituzioni emergenti nel paesaggio museale europeo. Con le sue mostre e le sue collezioni, ma anche grazie al suo programma di manifestazioni e alle attività didattiche, esso è diventato un nucleo vitale della storia e della cultura ebraico-tedesche, inteso come luogo di ricerca, di dibattito e di scambio di opinioni. Un Museo per giovani ed anziani, tedeschi e non tedeschi, ebrei e non ebrei.
L’architettura
Già da tempo la spettacolare costruzione di Daniel Libeskind è una delle immagini emblematiche di Berlino. Nell’originale rapporto tra architettura e contenuto espositivo l’edificio, rivestito di zinco, pone nuovi criteri per l’edilizia museale. Liebeskind battezza il suo progetto between the lines (tra le linee) e rappresenta il difficile percorso della storia ebraico-tedesca servendosi di due linee: l’una diritta, ma frammentata in vari segmenti, l’altra tortuosa, spigolosa e sospesa senza un termine. Nei punti in cui le due linee si intersecano si formano zone vuote, o voids, che attraversano l’intero museo. L’architettura rende tangibile la storia ebraico-tedesca, propone interrogativi e invita a riflettere.
Le Mostre
Su più di 3000 m2 di spazio espositivo la mostra permanente invita ad un viaggio di scoperta nei duemila anni di storia ebraica in Germania. Tredici epoche storiche trasmettono avive immagini la cultura ebraico-tedesca dal Medioevo ai giorni nostri. Oggetti d’arte e quotidiani, fotografie, lettere, e inoltre spazi interattivi e multimediali descrivono gli stretti legami tra la vita e la cultura ebraica e la storia tedesca. A completare la mostra permanente si aggiunge un vasto programma di mostre periodiche. Oltre a ciò il Museo offre un ricco programma di manifestazioni per giovani e meno giovani: concerti e conferenze, workshops e proiezioni cinematografiche.

lunedì 29 novembre 2010

 
Daniel Libeskind
MUSEO EBRAICO - ©STUDIO DANIEL LIBESKIND


Daniel Libeskind

Descrizione Progetto:


Una grande scultura, un’architettura carica di segni, simboli, evocazioni. Così si presenta l’edificio di Libeskind per il museo ebraico. Un gesto irrazionale, quasi a memoria della irrazionalità del “dolore storico”; un lampo fulmineo, questa la forma in pianta, il cui carattere illogico è sottolineato dal rivestimento argentato e luccicante di zinco.
Una spina che corre, che fugge, lasciando segno e memoria di sé; in facciata pareti lisce di zinco, ma segnate da feritoie sottili, casuali, sfuggenti, incise come lacerazioni nella pelle dell’edificio.
L’intero complesso occupa una superficie complessiva di diecimila mq e si sviluppa su cinque piani di altezza. L’interno non ha affatto le forme classiche e consuete di un museo: piani inclinati, corridoi labirintici, spazi poco fruibili immergono il visitatore in un labirinto di ricordi, memorie, ma non solo; rappresentato la testimonianza e la storia di un popolo.
Il progetto di Libeskind si sviluppa secondo tre percorsi: la torre dell’olocausto; il giardino E.T.A. Hoffmann, la strada della vita e della convivenza giudaico tedesca.
La torre dell’olocausto si trova all’interno di un volume di cemento alto e buio, con una piccola feritoia sul soffitto; il visitatore vi accede attraverso una pesante porta blindata, e si trova in uno spazio capace di evocare ricordi di cui, a volte, ha solo memoria storica: uno spazio che con la sua forma sembra essere al limite tra l’intimità di un ricordo e la freddezza del dolore.
Il giardino E.T.A. di Hoffmann si trova all’esterno ed è composto da 49 steli di cemento, (la fuga verso l’esilio) tagliate nella parte superiore con un piano obliquo e collocate su un terreno inclinato: nulla sembra essere al proprio posto e soprattutto grande disorientamento, vertigine.
La terza via è quella della vita e della convivenza giudaico-tedesca, ed è la strada che porta alle sale espositive, raggiungibili attraverso una scala ove una serie di travi oblique sembrano precipitare sul visitatore.
All’interno ci si imbatte in vuoti che non hanno nessun carattere funzionale, quanto piuttosto evocativo.

MUSEO EBRAICO - ©STUDIO DANIEL LIBESKIND

venerdì 26 novembre 2010



gioco, bellezza, spazio

"L'Architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico, dei volumi assemblati nella luce"
Le Corbusier, Verso un'architettura, 1923